QUALE LIBERTA'
di
Domenico Conversa
In genere le leggi dittatoriali di un regime provocano la
nascita di cori popolari che inneggiano alla libertà. Il terrore e la violenza
di un Stato di polizia determinano naturalmente che la parola libertà diventi
il principio ispiratore di una rivoluzione. La libertà di essere lasciati liberi
di vivere. Pensiamo ai campi di concentramento nazisti e come la parola libertà,
in quelle tenebre, penetrava dolorosamente nelle carni e nelle menti dei
deportati. La libertà di pensiero, di parola, di religione, di circolazione, di
riunione, di associazione. Tutte libertà conquistate con il sangue e con tanto
dolore. Ma cosa accade alla parola libertà quando è presente una dittatura morbida?
Quando con il termine di democrazia si cela nell’ombra un’oligarchia
gerarchica? Quando la democrazia è rappresentativa ma anche e soprattutto capitalistica?
Quando scegliere i padroni con le elezioni non cambia la condizione degli
schiavi? Quando l’oppressione arriva da un regime democratico totalitario? Un’oppressione
costruita con la propaganda e con l’ingegneria del consenso. Un’oppressione che
non è violenta, ma che annichilisce la coscienza individuale tramite la
pianificazione ed organizzazione di una società consumistica e alienante. In
tale contesto la ricerca della libertà può diventare la prigione stessa. Una
prigione che ci incatena a valori e bisogni a noi estranei e falsi: intrattenimento,
consumazione di beni e servizi che instupidisce, competizione, lavoro
alienante. Una libertà incatenata alla volontà di potenza e alla misura del
nostro ego. Una libertà che non ci fa volgere lo sguardo verso l’uscita della
caverna. Questa nostra democrazia è la Città del disordine e dell’opinione
individuale. Una Città che si frantuma e si trasforma in demagogia, tradendo
così la propria legge della libertà individuale. Quando un siffatto regime
democratico ci opprime, nella maggior parte delle volte non ce ne accorgiamo.
Troppo grandi e magnificenti sono i progressi tecnologici e l’apparente
miglioramento del nostro tenore di vita per destare noi dormienti. E in quelle
poche occasioni in cui nasce in noi un sussulto di consapevolezza, pretendiamo
quella libertà che ci riporta inesorabilmente alla nostra condizione di
schiavitù 2.0, al nostro carnefice.
Lottiamo contro l’oppressione per continuare a rimanere
oppressi. Se il nostro vivere si sostanzia solo in bisogni e necessità,
solitudine dei nostri effimeri desideri, impulsi dettati dall’inquietudine,
allora tanto vale farsi trasportare dall’opinione, dalla corrente, dal gregge,
dalla massa informe e dal sentimento dominante. E’ più semplice, reca meno sforzo
e non si perde mai!
Se volessimo veramente ribellarci ad una democrazia
autoritaria, dovremmo dapprima liberarci dalle instabili processioni del sé. Un
sé non da noi compreso che cerca di identificarsi con la stessa società che lo
soffoca. Forse, allora, bisognerebbe parlare di liberazione anziché di libertà
per spezzare le catene della paura. Liberazione dalle costrizioni del sé.
Obbedire ad un supremo principio etico dove la sola libertà è nel perdersi in
una verità di ordine superiore. Un mondo
al di là del mondo come spiegava Socrate.
I motivi che guidano e illuminano l’azione dell’uomo sono sempre
gli stessi: onore, fedeltà, amore del vero e devozione al bene. Senza una
riforma del cuore non ci può essere libertà.
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